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Il sogno dispari
La sindrome di Puffetta e il Dream Gap nell'hip hop
wonder women

La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza.
Un luogo capace di offrirci la condizione di una prospettiva radicale da cui guardare,
creare, immaginare alternative e nuovi mondi.
Non si tratta di una nozione mistica di marginalità.
E’frutto di esperienze vissute
bell hooks

Un aspetto che apprezzo davvero del nostro presente è che oggi abbiamo le parole: abbiamo attraversato situazioni che ci facevano scricchiolare dentro qualcosa ma non sapendo dar loro un nome preciso, non riuscendo ad inquadrare quanto si trattasse di un percepito individuale o di un vissuto comune, abbiamo taciuto anzi forse l’abbiamo quasi normalizzato.
Quando ho sentito per la prima volta parlare della sindrome di Puffetta è stato come accendere un riflettore su quella zona grigia e vederne tutti i granelli di polvere e le crepe che non mi apparivano prima. Incarnare questo ruolo al contrario è stato per me percepito a lungo con orgoglio, paradossalmente come fortuna e privilegio.
Quando ho cominciato a muovere i primi passi nella scena Hip Hop negli anni ’90 eravamo davvero poche ragazze, forse una per crew, cosa che non succedeva solo in Italia e anche gli esempi famosi contribuivano a normalizzare ai miei occhi questa condizione: come Toni Basil/The Lockers, Karima Khelifi/Aktuel Force o Babyson/Wanted Posse. Anzi ai miei occhi se eri l’unica donna lì in mezzo voleva dire che eri proprio brava.
E non che la società aveva un problema.
Perché appunto io sono cresciuta negli anni di Puffetta, del Muppet Show (anche se mi identificavo più con Kermit che con Piggy), ammiravo Fujiko in mezzo a Lupin, Jigen e Goemon, o immaginavo di entrare in auto dal finestrino come Daisy Duke unica di donna di Hazard.

L’espressione Smurfette Principle (il principio di Puffetta) è stato coniato da Katha Pollitt nel suo articolo del ‘91 sul New York Times e poi diffuso come teoria sociologica: al cinema e alla tv è normale osservare un solo personaggio femminile inserito tra una schiera di uomini, come rappresentante per accontentare il pubblico, così come si fa inserendo l’orientale o l’afro discendente (racial quota).

Il cerchio è diventato ancora più stretto quando nel corso degli anni, molte delle mie coetanee per diverse ragioni hanno abbandonato la scena, mentre io vi sono rimasta abbracciando un percorso professionale. Per questo ammetto che incarnare la quota rosa per un certo periodo ha giocato a mio favore, perché essendoci pochissime donne OG in Italia, significa che quasi inevitabilmente nella line up di un evento dovevano mettere il mio nome.
Ma questa dinamica ha cominciato a risultare stagnante. Abbiamo iniziato non solo ad accorgercene ma anche a desiderare di cambiare le cose: sono nati molti eventi per dare spazio ai talenti femminili delle quattro arti (danza, DJing, writing, rap) come Female Jam, Who’s that lady, A women Experience etc. solo per citarne tre di tre generazioni diverse per spingere diverse ragazze a mettersi in gioco e mostrare le proprie capacità, grazie a migliori opportunità. E molti altri stanno nascendo nella direzione dell’inclusione e dell’intersezionalità: come le ball portate avanti da la B Fujiko o Giorgia Jiji . Sono nati anche molti collettivi artistici femminili con un taglio più “impegnato” come Faamelikha o le Fly Girls crew di Milano. L’importanza non sta solo nel creare un safe space per l’espressione artistica e lo scambio, ma soprattutto perché dando spazi di visibilità e “potere” ad una rappresentanza femminile questo ha contribuito a costruire esempi possibili, ispirazioni, riferimenti che hanno cominciato a smantellare quel dream gap con cui mi ero formata. Dream gap ovvero la disparità di sogno: l’impossibilità di immaginarsi a ricoprire certi ruoli e quindi non de-siderare, non tentare di raggiungerli. I miei esempi li ho dovuti trovare nelle “mie” altre danze (tap, body music, danza africana), perché i miei maestri sono stati tutti uomini ed è stata una ricerca profonda anche quella di cercare di incorporare la tecnica da loro trasmessa senza venire meno alla mia identità, cercando di trovare un mio equilibrio tra forza, stile, morbidezza e il tutto con un corpo decisamente non conforme per i parametri della danza.

Il dream gap non l’ho incontrato solo in una prospettiva di genere, come ho appena descritto, ma anche in una prospettiva sistemica di ambito e disciplina: come immaginare – manifestare – e realizzare di portare i linguaggi della streetdance nel sistema della produzione e della programmazione nel circuito teatrale italiano e internazionale, per lo più orientato verso la danza contemporanea, con uno sguardo ancora un pò “giudicante” più che curioso. I rarissimi esempi che hanno fatto dei tentativi a riguardo sono maschili e spesso lo hanno fatto inciampando in quel bivio che richiede un compromesso, un tradimento alla propria identità o perchè si incarna il cliché richiesto dal mercato o perché ci si snatura per avvicinarsi all’ambiente che ci accoglie. E’ un confine scivoloso, che sto ancora provando ad attraversare e risolvere, per me e per le generazioni future, ancora una volta cercando di essere quell’esempio che io non ho trovato, provando a diventarlo per altr3.

La strada da fare è sicuramente ancora molta, nella scena artistica come nella vita, ma se mi giro indietro vedo quanti passi sono stati già fatti, grazie anche all’accesso aperto da me e poche altre pioniere, vedo quante siamo oggi, vedo il livello del talento, la professionalità e la capacità non solo di sognare ma di realizzare il proprio sogno concretamente.
Sapere di essere parte di questa piccola grande rivoluzione mi rende fiera e mi dà la forza per continuare ad essere presente, dare il mio contributo alle nuove generazioni, accompagnarle in nuove sfide.

Per approfondire:

WOMEN TROPOS
SCATENATE
BELL HOOKS tutti i suoi libri

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