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Il filo rosso
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Ogni volta che un’amica a me cara aspetta un figlio, ricamo per loro qualcosa: un lenzuolino, un asciugamano, un bavaglino.
È un gesto estremamente anacronistico lo so, ma è il mio modo di esserle vicina, prima e dopo. È una pratica lenta, che mi porta a passare molte ore seduta, con gesti minimi, raccolta nei pensieri e nell’immaginazione di quel che sarà, in modo solidale al suo stato degli ultimi mesi di gravidanza forse. E poi penso che ogni volta che faranno il bagnetto, la nanna, le passeggiate, le prime pappe, quel mio dono sarà lì, e attraverso quell’oggetto un po’ anche io.
È uno dei miei modi di creare.

Creare dalla radice sanscrita KAR, la stessa di Kronos/Dio del tempo, di Cerere/Dea dell’abbondanza e della fertilità, radice che rimanda a produrre, generare, dare forma, ma anche allevare ed educare (Creanza), del fare dal nulla (dare corpo), di procreare (dare alla luce/partorire).

Quella del ricamo è una delle tante esperienze “subite” mio malgrado da piccola e di cui ho apprezzato il valore solo in seguito, con la nuova prospettiva che la distanza di molti anni poteva offrirmi. Non ricordo allora l’esistenza dei centri estivi o per lo meno non nel piccolo paese in cui abitavo negli anni ’80, così d’estate mia madre mi mandava con la mia inseparabile amica e vicina di casa, dalle suore a ricamare. Non so bene se fosse per tenermi occupata e “controllata” o perché volesse veramente che io imparassi quel saper fare. Quello che ci veniva raccontato e condiviso dalle suore in quel frangente l’ho proprio rimosso, ma le tecniche, gli imparaticci, i manufatti e il mio cestino da lavoro di paglia intrecciata li ho sempre ben presenti davanti agli occhi, ancora dopo quasi 40 anni.

Le ricerche di Yvonne Verdier (Auvergne, inizio del XX° secolo), individuano nella pratica del ricamo e del cucito una vera e propria iniziazione : riunite per classi di età, lontane dalla famiglia e da altre forme di socialità, le giovani stringevano legami di sorellanza che andavano oltre le gerarchie sociali, si preparavano alla vita non solo domestica, ma di coppia, ricevendo in quel frangente un’educazione sentimentale e sessuale, imparando un mestiere che permettesse loro di emanciparsi e rendersi indipendenti economicamente, cosa rara per l’epoca. « Devenir couturière, c’est presque le choix de cette liberté-là »

Il cestino che usavo allora, era un regalo della nonna Ida, non per me in realtà ma per mia sorella.
Classe 1891, Ida vantava incredibilmente una laurea in ostetricia e per di più presa durante una guerra mondiale. Ma poi quel titolo, non si è mai saputo il perché, non è mai stato messo a frutto. Era più adatto ad una donna dell’epoca essere relegata all’insegnamento negli istituti professionali di una materia che sotto il fascismo aveva il nome parecchio esplicito di lavori donneschi – e che successivamente divenne economia domestica. La nonna dalle mani d’oro, che avrebbe dovuto far nascere i bambini e invece visse, tra 3 guerre e 2 figli, infiniti aborti e morti prematuri.

La marquette – imparaticcio in italiano – si fa rigorosamente con il filo rosso e a punto croce. Non perché sia il punto più semplice e quindi il primo che va esercitato. È la firma di tutti, quella degli analfabeti, quella delle donne a cui viene negata l’istruzione. È il rosso del primo sangue con cui si marchia la propria biancheria. Ed è il menarca che stabilisce il tempo di essere mandate ad imparare la pratica del ricamo: tenere “le mani impegnate” e stare lontane dalla promiscuità. (Yvonne Verdier – Façonne de dire, façonne de faire)

Ida finì ad insegnare alle elementari prendendosi cura dei figli altrui.
Perché creare non è solo dare la vita, ma anche
educare,
dare forma,
allevare,
dare il proprio tempo,
inventarsi un modo diverso ogni giorno, nella tecnica e nell’espressione.

E così è toccato a me,
che firmo la maternità di numerose opere,
che cerco fondi per sostenere le mie creazioni,
che ho dedicato 25 anni della mia vita alla trasmissione del mio sapere alle nuove generazioni
che accompagno, nei passaggi della vita, l* ragazz* che si affidano a me, ma poi imparo a lasciarl* andare per la loro strada seguendol* da lontano. Ogni volta sul cuore, un piccolo strappo da rammendare.

“Io la mia maternità la vivo senza essere mai passata dallo stato interessante – espressione ipocrita, perchè nella realtà non c’è niente che riceva dalla gente e dalle istituzioni meno interesse del destino di una persona incinta”. 
Michela Murgia –  “Dare la vita”

 

 

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