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ADOLESCENTI
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Estate 2019. Siamo al mare. Cerco di concentrarmi sulle righe del libro che mi sono portata ma intorno a noi le voci sono rumorose, la musica invadente e lo scambio di argomenti imbarazzante.
Alle nostre spalle ragazzi appena maggiorenni, in un italiano sgrammaticato, ridono della scorsa nottata passata in un locale in Versilia, accennano a quelle ragazze bellissime che li hanno provocati, la scenata dei loro fidanzati, lo stato penoso in cui sono rientrati all’alba dopo parecchi drink, sfidando i controlli di polizia.
Sono stata ragazza anche io certo, e neanche troppo tempo fa, ma mi irrigidisco sentendo sbandierare con tale orgoglio tante ca**te tutte insieme. Poi vengo strappata ai miei ricordi di adolescente da frasi come:
–        I miei adesso mi lasciano 10 giorni da solo a casa perché devo guardare i gatti ma non so come fare perché dopo una settimana ho finito tutti i vestiti puliti..
–        Io invece vado a Barcellona
–        Figooooo … ma c’è il mare a Barcellona?! E le discoteche come sono?
Niente , ci rinuncio, non posso leggere e mi piglia lo sconforto pensando agli attori del futuro del nostro paese. Mi metto a sedere. E mi rendo conto di essere al centro di un triangolo di sguardi.
Alle mie spalle gli sfigati protagonisti delle notti brave.
Di fianco un gruppo di afflitti dal male di vivere, incollati ai cellulari, che non si parlano ma si messaggiano.
Davanti un trio di Lolite, rigorosamente in perizoma che giocano a schizzarsi e correre sul bagnasciuga, assicurandosi di tanto in tanto di essere osservate dai suddetti gruppi.
Ammetto che sono rapita anche io: sono davvero carine e ci sanno fare.
Ad una di loro viene un’idea, si spostano e vanno in fondo al molo. Certo si allontanano ma la prospettiva gioca a favore. Non ci credo, cominciano a twerkare mentre un diabolico dj improvvisato raccoglie la provocazione e alza il volume delle sue casse. Colonna sonora della performance,un bel raggaeton truzzo.
Si risvegliano anche gli amici dello spleen, che riescono a malapena a scambiarsi un sorriso perché hanno già puntato tutti i loro cellulari a riprendere la scena e sono impegnatissimi a postare.
Ecco lo sconforto si tramuta in ansia. Perché di articoli in proposito ne ho letti tanti e la mia immaginazione già corre : mi chiedo chi vedrà quei video, che uso ne verrà fatto, come finiranno quelle ragazze e mi viene solo voglia di correre sul molo con un asciugamano per coprirle e dir loro di rispettare sé stesse almeno un po’. Mi sento vecchia e decido di andarmene semplicemente a casa.

Il vicino di sotto affitta il suo appartamento per l’estate ai turisti. I prescelti della settimana sono un meraviglioso gruppo di 20enni che si è chiuso fuori, mentre andava al supermercato per comprare alcolici per il festino della sera. Mi vien voglia di non aprirgli. Soprattutto dopo che mi chiamano signora.
Mio marito torna a casa e mi trova sul terrazzo a guardare il cielo immersa nelle mie riflessioni. Sempre più spesso in questi ultimi tempi ho avuto giornate così, in cui mi sembra che inciviltà e ignoranza siano non solo sempre più dilaganti, ma anche ormai legittimate, sbandierate e quasi esibite con orgoglio. Sempre più spesso torno a casa chiedendomi cosa posso fare io nel mio piccolo, nel mio quotidiano per rallentare questa deriva.

Gli racconto i miei pensieri, lui si siede per terra accanto a me, appoggia le spalle alla porta finestra e si apre: è stato proprio un ragazzino come questi, 14 o 15 anni al massimo, ad uccidere il mio migliore amico in Libia. Sai capita di sentire che qualcuno che si conosce è morto e ripensare che lo si è visto solo il giorno prima, ma essergli seduto accanto mentre viene ucciso è un’altra storia. In Libia dall’età di 12 anni tutti hanno un’arma. E la usano per divertirsi, per provare che sanno usarla, per noia. Così un gruppo di ragazzini esce a farsi un giro in macchina e ci trova, me e il mio amico, seduti su un marciapiede, per strada. Abbassano i finestrini e sparano, così per gioco. E’ solo la velocità dell’auto a far sì che il proiettile cambi traiettoria, mi sfiori e prenda il mio amico, invece che il bersaglio a cui avevano mirato, cioè me.

Resto attonita. Ho già sentito altri racconti così, ma è sempre un pugno nello stomaco, sembra sempre così irreale e lontano. Lui continua. Un’altra volta ho sentito che cercavano della gente per un lavoro. Ci siamo presentati in tanti. Scende dalla macchina il capo che avrebbe dovuto reclutarci e invece tira fuori una pistola, me la punta contro. Gli altri sono scappati, io ero come inchiodato, non riuscivo a muovermi. Preme il grilletto e il colpo non parte. Ritenta e si inceppa. Ritenta una terza volta, ma niente. Così la punta in aria e il colpo viene esploso. Mi guarda dubbioso ed entrambi sappiamo che “qualcosa” quel giorno mi ha salvato la mia ora non era ancora arrivata. Abbiamo guardato in cielo entrambi, cercando lì la risposta ai suoi dubbi sospesi. Mi ha chiesto perdono e se ne è andato.
Non mi piace ricordare questi momenti, ma per due anni in Libia è stato così. Ogni giorno uscivi di casa senza la certezza di rientrarvi, né di restare vivo. Lì la vita non vale niente, ancora meno quella di un nero. E allora quando sei già morto, non temi nessun rischio, non esiste la paura, perché non hai più niente da perdere.
Lo guardo, vedo il mio uomo e non riesco a immaginare che lui sia lo stesso di quelle storie. E come la prima volta che ho sentito racconti del suo passato penso solo  : come puoi non essere impazzito?

 

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